Nel recensire La vita agra a pochi mesi dalla pubblicazione Luigi Baldacci mise immediatamente a fuoco la centralità del discorso linguistico all’interno della narrativa bianciardiana. Il presente contributo intende muoversi nel solco tracciato da Baldacci e proporre una lettura di Il lavoro culturale, L'integrazione e La vita agra come riflessioni metalinguistiche e sociolinguistiche polemicamente motivate.
Primo passo in questa direzione sarà la collocazione dell'opera all'interno di un triangolo storico-culturale che ha per vertici letteratura, industria e lingua. Gli anni dei romanzi-pamphlet bianciardiani sono infatti anni di intensi dibattiti sulla relazione tra questi tre poli: dibattiti che si intrecciano sul Menabò e sul Verri, che stimolano la temperie neoavanguardista, che suscitano le Nuove questioni linguistiche pasoliniane. La narrativa bianciardiana non può essere letta se non in questo campo di tensioni, come suggerisce un articolo poco noto che Bianciardi pubblica nel 1965, intitolato: E dunque, che lingua fa?
Da queste premesse si muoverà all'analisi della riflessione linguistica attuata all'interno dei tre testi, leggibili come inventari delle antilingue che producono incomunicabilità, tensione e disintegrazione all'interno del tessuto sociale dell'Italia del boom: il politichese, il traduttese, il burocratese e la lingua roboante dei critici letterari sono presentati sarcasticamente da Bianciardi narratore come degenerazioni della lingua che, "fatta per dire, è usata per non dire, e in ciò è massimamente disonesta e sopraffatoria" (Mengaldo). A questo inventario si affianca quello altrettanto sconsolato delle varietà diatopiche dell'italiano - nei primi anni Sessanta ancora ben lontano dall'essere lingua nazionale.