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Il capitombolo di Mazzini: Pro Patria di Ascanio Celestini
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https://doi.org/10.5070/C928012490Abstract
Ci si può riconoscere oggi negli ideali risorgimentali? Pro Patria di Ascanio Celestini autore, attore, regista, parte dall’attualità delle galere, avvicinando telescopicamente il presente alle aspettative di quel passato. Una riflessione messa in scena attraverso la figura di un recluso, in cui Celestini si identifica, che ha accesso a pochi e polverosi testi della biblioteca della prigione, e scopre che il Risorgimento è stata una storia di lotta armata, dove i combattenti erano ragazzi tra i 18 e i 25 anni finiti in cella, o al cimitero. La galera per un rivoluzionario è un’opportunità: questa locuzione in Pro Patria, senza prigioni senza processi ci porta al dispositivo scenico che vede Celestini dialogare con un Mazzini fantôme, consapevoli entrambi che gli ideali repubblicani, sostenuti a così caro prezzo, non sono stati realizzati con l’Unità d’Italia, perché i padri hanno tradito i figli. Per comprenderne le ragioni questo carcerato nelle vesti di Celestini vuole con Mazzini scrivere una lettera indirizzata a noi, oggi. Nel confronto generazionale padre-figlio, si azzera la lontananza cronologica fra l’Italia immaginata e l’Italia reale. Alla delusione per questa rivoluzione mancata, fanno da controcanto i ricordi della Repubblica romana, momento altissimo di elaborazione e applicazione delle idee democratiche di giuristi, politici, combattenti risorgimentali.
Celestini, seguendo una strategia recitativa collaudata, sta in una scena nuda, enfatizzando dunque l’attenzione del pubblico verso di lui, il narratore. Questa bassa definizione scenografica, fredda direbbe Mac Luhan, chiede un’alta partecipazione dello spettatore. Il suo teatro di parola si basa su una gestualità che rinvia alla dimensione spaziale degli avvenimenti, e che deitticamente correla sempre l’enunciato al contesto. Questa figurazione dei topoi stabilisce un continuo ponte fra passato e presente, sia ricordando i nomi delle strade e stradine del Gianicolo e di Trastevere dedicate ai caduti della Repubblica romana, sia simulando le smilze finestre delle prigioni di oggi; con questo gesto Celestini rinvia all’emblematico sporgersi o meno dalla finestra della storia, come è stato fatidicamente per Pio IX.
Sul continuum narrativo ad una sola voce domina l’ironia allo stesso tempo giocosa e drammatica di Celestini che pur parlando di eventi così gravi assume le sue stesse affermazioni autovirgolettandole, per così dire, con irrisoria leggerezza. Non vuole sollevare dei sensi di colpa, non vuole allestire un tribunale e additare i colpevoli, ma rimettere in marcia idee, emozioni, giudizi critici sulla storia nel suo presente continuo.
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